Introduzione

L’intelligence è l’essenza del fare politico. Lo è sempre stata, anche se oggi si tende a dimenticarlo.
La logica dell’intelligence è particolare e specifica: si occupa dell’intero quadro del processo decisionale, ma seleziona solo alcune decisioni-chiave che permettono il raggiungimento dell’obiettivo prescelto. Nulla è a priori escluso dal processo dell’analisi di intelligence: dalla struttura del Pil alla politica industriale, dalla condizione delle banche alla pianificazione industriale, per non parlare delle valutazioni sulla tenuta psicologica e coesione sociale delle popolazioni.
Non vi è nulla fuori dall’intelligence, tutto può essere oggetto di analisi e di scelta operativa in questo particolare ramo dell’arte e della scienza del Governo, per usare una vecchia formula di Gaetano Mosca.
Se, come diceva Benedetto Croce, non mi interessa la moralità privata di un chirurgo, ma solo che sia bravo nella sua professione, allora lo statista di alto livello non è quello che è bravo a «comunicare» o a rappresentare il mood delle masse, ma quello che meglio di altri conosce l’arte del Governo e opera secondo le leggi, eterne, della Raison d’ Etat del cardinale Mazzarino o di Federico II di Prussia.
La modernità ha portato a un ampliamento delle tecniche della comunicazione e dell’azione del Politico, ma la logica del funzionamento del sistema dello Stato e delle sue Relazioni Internazionali è sempre quello: identificare l’interesse nazionale, che è ciò che l’intelligence primariamente protegge, porlo in campo, poi sottoporre, come diceva Von Clausewitz, il nemico o anche l’alleato alla propria volontà, vincere infine, con il minimo sforzo, le resistenze degli altri membri del sistema politico internazionale.
Ecco l’azione tipica dell’intelligence, che è il vero cuore vivo dello Stato.
Equilibrio tra mezzi e fini, composizione delle forze in campo, né eccessive né trascurabili, per dirla con Richelieu, utilizzazione delle alleanze o degli scontri solo e unicamente per i nostri fini, proiezione della nostra influenza e della nostra capacità di mediazione o interdizione.
Ecco tutta la Politica Internazionale, oggi come ieri e come domani. Le teorie «valoriali» dell’intelligence e della Politica Estera, che oggi vanno di moda, sono solo tecniche,
spesso ingenue, di propaganda, non hanno rilievo concettuale autonomo.
«Portare la democrazia», «diffondere i diritti umani», «liberare le minoranze oppresse» o le altre e numerose formule oggi diffuse nella comunicazione politica internazionale sono valide se si usano come strumenti di psyops, «guerra psicologica», irrilevanti se si intendono come fini operativi di una determinata politica estera.
Le stesse regole valgono anche nel campo della politica interna, e allora aveva ragione Niccolò Machiavelli, quando, nei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio, faceva notare come le regole per gli «amici interni» valgono per gli alleati esterni, e le tecniche dell’inganno e della segretezza sono identiche sia in politica estera che nel maneggio degli affari interni.
Gregorio Leti, nel 1671, parlava di «secreti di Stato dei Prencipi d’ Europa», e si dilungava sulle relazioni tra capi di governo e «cavalieri» addetti all’esecuzione di tali «secreti».
E le teorie di Machiavelli e persino di Nietzsche, «un anacronismo machiavellico nel XIX secolo», si basano sull’esistenza di un secreto irraggiungibile non solo alle masse, ma anche a gran parte delle classi dirigenti.
Ecco quindi la necessità del segreto, e del segreto di Stato, che permette l’autonomia di comportamento delle classi politiche ed evita alla popolazione i pericoli di una azione pesante da parte del nemico, del concorrente, dell’alleato.

È quindi ovvio che l’intelligence generi scelte da verificare sempre in fieri, e anche questo è lavoro per le Agenzie, quello appunto di riparare «in corsa» le decisioni messe in atto all’inizio. Da ciò deriva la superiorità dell’analisi di intelligence su tutte le altre forme dell’«arte politica» che è, appunto, un’arte, non una scienza, essa riguarda la sapienza dell’artigiano o del «vasaio» platonico, non si riferisce alle attività riproducibili dell’industria. La scelta del Principe è, come diceva Burckhardt studiando il Rinascimento fiorentino, «la politica come opera d’arte».
E la propaganda vale per il nemico o per l’alleato da illudere, non per chi la produce.
Quindi l’intelligence, connette insieme la tradizionale e mai venuta meno Ragion di Stato, che supera sempre gli interessi, le passioni, le vite stesse dei politici, alla serie di piccole e grandi scelte pubbliche che permettono la sopravvivenza dello Stato, il suo crescere e fiorire, il suo rayonnement strategico e di potere sui vicini e sugli avversari o alleati.
Senza intelligence, che non è assolutamente la stessa cosa dell’espressione «Servizi Segreti», anche se il segreto è l’essenza dell’intelligence, non è possibile valutare a medio-lungo termine nessuna delle scelte di un sistema politico. Senza intelligence, non vi è politica, né estera né interna.
Il Segreto riguarda anche altre Amministrazioni dello Stato, come è noto, ma il Segreto dell’ Intelligence non è solo una raccolta di dati e fatti, ma il possesso di una logica profonda per la decisione politica che, di per sé, vale molto di più della notizia più o meno riservata.
Ciò che si nasconde e, come diceva Nietzsche, «ciò che è profondo ama la maschera», è quello che conta. Perché uno Stato non può sopravvivere come tale se tutto quello che decide è noto, prevedibile, contrastabile.
In particolare, i sistemi statuali che usano bene l’intelligence si salvano e prosperano, mentre quelli che si riducono a una visione bidimensionale o pubblicitaria dei fatti «ruinano», per dirla con Machiavelli.
Detto questo, noi non abbiamo più da anni una intelligence degna di questo nome. Non è colpa dei Servizi, beninteso, saputo usare l’intelligence, non le hanno fatto le domande giuste, non hanno utilizzato le notizie e i meccanismi mentali che i Servizi sviluppavano.
Sulla relazione tra intelligence e classi politiche, nella democrazia di massa, si è sviluppata recentemente una bibliografia sterminata.
Si va da una teorica, di stampo anglosassone, che privilegia il controllo parlamentare e la openness del Servizio, nei limiti del possibile, a una tradizione politica nella quale l’intelligence viene sottoposta a normative stringenti, astratte, agite dalla Magistratura o dalle Autorità preposte alle Forze di Polizia.
Il Servizio non è né può essere una struttura di Polizia Giudiziaria: lo proibisce la legge, lo inibisce il buon senso, ce lo evita la razionalità.
Quindi il sottoporre l’intelligence a tutta la normativa della Sicurezza e al resto dell’Ordinamento è cosa irragionevole e folle, che vale quanto l’abolizione di fatto delle Agenzie.
Peraltro, il sottoporre i Servizi alle strutture di Polizia creerebbe uno squilibrio tra i poteri dello Stato tale da inficiare sia la rappresentanza democratica che la stessa efficacia dei governi.
Quindi, una Agenzia è una struttura che viene utilizzata, secondo le normative, da chi e solo da chi ha accesso alla sua struttura interna che, peraltro, è solo parzialmente nota ai Decisori, per ovvi motivi di segretezza.
Penso che, in questo caso, a parte un necessario rafforzamento di tutte le Agenzie, occorrerebbe pensare a una catena di comando più «stretta».
L’Autorità Delegata riferisce direttamente al Primo Ministro, che decide, di concerto con l’Autorità, delle azione e operazioni proposte dalle Agenzie.
In corso d’opera, il Premier può decidere di informare, e come informare, la Commissione Parlamentare di Controllo che, peraltro, potrebbe occuparsi, oltre che di audizioni, di proposte, di aggiornamenti, di modifiche alle attività delle Agenzie.

Certo uomini politici che abbiano saputo utilizzare l’intelligence, in Italia ne abbiamo avuti pochi davvero.
Eccezioni in questo contesto sono state, a mia memoria, solo Bettino Craxi e Francesco Cossiga.
Craxi era un socialista risorgimentale e liberale, nel solco dei Fratelli Rosselli e delle grandi socialdemocrazie nordiche, e non accettava di sottoporre l’ Italia ad un quadro strategico,
nel Mediterraneo e altrove, che già nei suoi anni mostrava molte crepe.
Una memoria culturale, quella di Craxi, pienamente socialista, certo, ma anche autenticamente nazionale. Le Agenzie hanno molti «servizi collegati», come si dice in gergo, ma sono solo, autenticamente e sempre nazionali. Senza identità nazionale non vi è Servizio, senza intelligence non vi è né Stato né Nazione.
Anche Francesco Cossiga era un vero Maestro dell’intelligence. C’era in lui, che ricordo ancora con commozione, l’afflato nazionale risorgimentale di un cattolico democratico che era cresciuto in Sardegna, dove, come diceva, «bisogna essere italiani per scelta, non per nascita».
La dimensione atlantica e quella mediterranea erano al centro del pensiero di uno straordinario direttore del Sismi, l’ammiraglio Fulvio Martini.
Per Martini, l’asse di sviluppo dell’ Italia, la sua possibilità di fare davvero politica estera, erano tutte nel Mare Nostrum, che lui vedeva come punto di sutura per tutta la sicurezza atlantica.
Senza stabilità nel Mediterraneo, nessuna vera copertura atlantica verso Est e Sud funzionava davvero, senza la chiusura stabile dello spazio, e oggi vediamo quanto Fulvio avesse ragione, del Mediterraneo, tutte le scorribande delle nuove orde d’oro o dei nuovi Califfi si sarebbero espanse indefinitamente, rendendo marginale e debole anche il Limes infra europeo.
La finanza globalizzata non fa più differenze tra bene e male, e allora tutta una serie di scelte geopolitiche divengono opache e in apparenza irrazionali, ma nascono nuovi attori globali, statuali o no, e il ciclo della nuova finanza bianca-nera decide una redistribuzione dei potenziali strategici e militari del tutto nuova.
Siamo entrati, dal 1992 in poi, tra Argentina, Messico, Colombia, Italia, Paraguay nella fase «cambio di mafia», come qualche studioso lo ha chiamato. E Cossiga l’aveva capito benissimo.
Nell’ Urss in crisi ci fu la decisione di mollare l’impero occidentale dei Sovieti, il Patto di Varsavia, all’ Ue e alla Nato, per evitare i sovra costi di un sistema economico irrazionale e corrottissimo, poi ridefinire un’apertura controllata del vecchio impero sovietico per chiamare i capitali occidentali a soccorrere l’immane fallimento dell’economia centralizzata senza costi né prezzi reali. Un delirio programmatico, ma che sopravvisse con la vendita dei petroli e l’espansionismo strategico.
Quindi, per riassumere con qualche brutalità: abbiamo oggi a che fare con l’inevitabile rinascita dell’annosa questione dell’interesse nazionale, che non è quello della Nato, degli Usa, della Ue o, peggio, dell’Onu, ma è nostro e solo nostro, e nessuno lo gestirà favorevolmente al nostro posto, se non lo facciamo noi.
La mitologia ossessivamente «multilaterale» della nostra classe politica è oggi esiziale, ammesso che sia stata di una qualche utilità in passato.
Vengono in mente Francesco I e Carlo V, quando l’imperatore spagnolo affermò «quello che vuole mio fratello lo voglio anch’io». Era il ducato di Milano. E non potevano detenerlo entrambi, ovviamente.
Poi, oggi abbiamo a che fare con la rinascita della concorrenza tra gli Stati e, addirittura, tra Stati che sono anche alleati militari e finanziari (l’ Euro è un grande paravento per la concorrenza tra geoeconomie).
Big Business globale, l’espansione dell’economia criminale, che è ormai pari, come fatturato, al business annuale mondiale degli idrocarburi. Tutti attori strategici di prima grandezza, che anni fa l’intelligence prendeva in scarsissima dono la vecchia arte della Ragion di Stato.
Il problema non è la sottoposizione maggiore del Servizio alla classe politica, certo meno dotata di quella che gestiva la «Prima Repubblica», il che non è certo una garanzia di democraticità o di lealtà del Servizio alle Istituzioni.
Sottoporre le Agenzie ad una pluralità di figure politiche vuol dire fare in modo che esse prendano sempre la decisione più facile, indolore, tranquilla, meno invasiva o pericolosa.
Non è affatto detto che sia quella giusta.
Le agenzie non devono chiedere scusa per esistere, devono tornare ad essere il nucleo vivo dello Stato e, per farlo, occorre una classe politica che le valorizzi, le migliori, le
espanda.
La contrapposizione tra «segreto» e «democrazia» è falsa e superficiale. Tanto maggiore è il segreto, tanto più forte la sicurezza dello Stato e, quindi, di tutti i suoi cittadini.
Occorre, casomai, strutturare una intelligence community moderna, che unisca, anche in modo informale, le migliori energie imprenditoriali, culturali, bancarie, accademiche, scientifiche, per fini temporanei ma ampi e importanti. Un primo esperimento, attraverso il Dis, è già attivo nel contesto della nostra intelligence.
Sarà quindi l’intelligence a costruire il Paese, perché ogni azione internazionale, e oggi sono tutte di rilievo internazionale le scelte geoeconomiche e strategiche italiane, è una azione di intelligence che deve essere ordinata, ispirata, gestita e, soprattutto, compresa da una classe politica e funzionariale all’altezza dei tempi.
Ecco, unire l’internazionalizzazione finanziaria e geopolitica con una necessaria azione strategica, sapendo bene qual è il nostro interesse nazionale, che nessuno ci regala, e tentare una serie di contromisure per evitare che gli altri, finanziandoci, ci facciano addosso anche la loro politica esterae di difesa.
Altro che semplice peacekeeping dove peraltro la pace non c’è: qui si tratta di inventarsi, in area Nato, azioni di separazione tra le parti e di controllo militare di aree che per noi sono vitali: il Sinai, che controlla il Canale di Suez, le nostre vecchie aree somale e abissine, i passaggi tra Mare Mediterraneo e le zone terrestri verso la Via della Seta.
Pensare, quindi, come fanno i vecchi maestri dell’analisi strategica anglosassone, da Mahan a Trevelyan, o figure come Carroll Quigley negli Usa, per civilizzazioni e universi culturali, non aree di interessi materiali o zone legate a uno stesso potere politico, che è derivato dalle civilizzazioni e non viceversa.
Ecco: controllare credibilmente, ovvero con una minaccia credibile, l’inizio della Via della Seta dovrebbe essere il nostro fine strategico e di intelligence nel Mediterraneo Orientale.
Tutte operazioni e pensieri che devono essere monitorate quasi ogni ora, messe in correlazione logica, storica e strategica, analizzate in tempo reale da menti esperte e acutissime, portato davanti, quasi ogni minuto, a decisori attenti e capaci. Questo è l’intelligence.