Prefazione del Professor Oliviero Diliberto

Confesso subito una certa invidia per voi, lettori alle prese con le prime righe di questo libro. Invidia perché il libro, appunto, dovete ancora leggerlo, gustarlo, apprezzarne la sapienza e la raffinata erudizione.
È un libro – quest’ultimo lavoro del Prof. Giancarlo Elia Valori – profondo e bellissimo.
Centrale, in esso, è il cosiddetto “Codice di Camaldoli”. Dal 18 al 24 luglio del 1943, organizzato come una delle “Settimane di teologia per laici” o “Settimane sociali”, si svolse a Camaldoli una sorta di seminario-convegno nel quale esperti di pressoché tutte le scienze sociali, di fede cattolica, dichiaratamente antifascisti, gettavano le basi per il futuro Stato democratico.
Una trentina i partecipanti. Tra essi, coordinati dal vescovo di Bergamo Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione cattolica, si rinvengono tra i nomi migliori e più illustri di quella che dì a poco sarebbe stata la Democrazia Cristiana: Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni e Vittorino Veronese tra i primi e – in quel momento – i più autorevoli. Ma troviamo anche i futuri dirigenti politici Mario Ferrari Aggradi, Giulio Andreotti, Guido Gonella, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani; i giuristi Giuseppe Capograssi e Gesualdo Nosengo; l’economista Giuseppe Medici; e molti altri.
Si notino le date: siamo nel luglio del ’43.
I lavori terminano il 24, il giorno prima cioè della riunione del Gran Consiglio che deporrà Mussolini. Il regime, in altre parole, pur decisamente in crisi, è ancora saldamente al potere. Gli americani, il giorno dopo l’apertura dei lavori, bombardano Roma.
L’immane tragedia è pienamente in corso. Ma quegli intellettuali cattolici prefigurano già il dopo, la ricostruzione, la speranza. In una parola: guardano, verrebbe da dire profeticamente, al futuro.
Il futuro, la speranza, le aspirazioni. Una società dilaniata che si rialza.
Il documento finale fu pubblicato nell’aprile del 1945 con il titolo Per la comunità cristiana. Principii dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli. Ancora una volta, la guerra era ancora in corso, ma la pubblicazione precede di un soffio la Liberazione definitiva, il 25 aprile.
Pensando a quei giovani (e meno giovani) di allora vengono in mente i versi straordinari di Umberto Saba che nel 1944, arrivando nella Firenze appena liberata scriveva: «che a tratti rombava ancora il cannone e Firenze taceva, assorta nelle sue rovine».
Dalle rovine, immani, si guardava però agli anni a venire. Quella avventura politico-intellettuale di Camaldoli prefigurava già il dopoguerra, il referendum sulla repubblica, la Costituente. I cattolici democratici stavano, insomma, iniziando a costruire il futuro dell’Italia democratica.
Di quel lavoro svolto a Camaldoli, l’Autore ricostruisce le trame culturali. Ne individua le radici e la spiritualità. Coglie nessi profondi.
Lo Stato, la famiglia, l’educazione, il lavoro, la proprietà e l’economia pubblica, le relazioni internazionali. Nel “codice di Camaldoli” c’è già praticamente l’ossatura della futura Costituzione.
Un esempio per tutti. Nel codice civile italiano del 1942, promulgato cioè solo l’anno prima di Camaldoli, il diritto di proprietà è definito nell’art. 832, il «diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico».

Si avvertono ancora gli echi potenti del Codice Napoleone del 1804, il codice del trionfo della borghesia dopo la Rivoluzione del 1789 (art. 544: la proprietà è il diritto «de jouir et de disposer des choses de la manière la plus absolue, pourvu qu’on n’en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les réglements»).
La proprietà privata è il perno di tutto il sistema civilistico, figlio della rivoluzione borghese: è il cosiddetto «diritto egoista» (Rodotà), coniugato indissolubilmente con la libertà (Property and liberty, secondo Voltaire). I diritti civili e politici, dunque, sono subordinati all’essere proprietari, anche nel diritto di voto.
Ma siamo nel 1942!
Solo un anno dopo, proprio a Camaldoli, si incomincia ad individuare quanto, di lì a pochissimi anni, leggeremo nella Costituzione repubblicana. Art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Non vi è dubbio che con questa formulazione cade ogni riferimento alla sacralità ed alla inviolabilità del diritto di proprietà: viene meno, cioè, l’dea dell’assolutezza del diritto medesimo. Così come è definitivamente scomparsa ogni connessione tra proprietà dei beni e libertà della persona. L’interesse del privato è riconosciuto e garantito, ma nella misura in cui esso non sia in contrasto con l’interesse generale: si postula, in altre parole, una sorta di nuova gerarchia – di natura egualitaria e solidaristica – tra collettività ed individuo, nel senso che la prima ha preminenza sul secondo.
Ma l’esito di questa dialettica – proprietà dei privati/funzione sociale, cioè collettiva – è stato determinato dal conflitto, dai rapporti di forza tra le classi, dalla battaglia culturale e politica tra le diverse tendenze.
Il salto logico, giuridico, politico e culturale tra il codice civile e la Costituzione è enorme. E sono trascorsi solo sei anni (1942-1948).

Decisiva in tal senso è l’esperienza di Camaldoli e, di lì a poco, l’incontro tra quella cultura cattolica democratica e la cultura politica marxista (declinata, togliattianamente, nel contesto italiano, in misura pragmatica, duttile e tutt’altro che settaria).
Il libro di Valori evoca il passato, dunque (Camaldoli del ’43), per prefigurare, auspicandola, una nuova Camaldoli.
Per arrivare al futuro – come nei precedenti altrettanto profondi lavori dell’Autore – Valori ne scandaglia le radici, evocando figure fondamentali di pensatori cattolici (quali Yves Congar, Henri De Lubac, Theilard de Chardin ed altri) e il ruolo chiave di Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI nel preparare e sostenere l’iniziativa del ’43.
Ma il libro che avete tra le mani offre spunti di riflessione densissimi sul rapporto tra la tradizione e il futuro: tema, quest’ultimo, su cui l’Autore si è brillantemente già cimentato, e a più riprese.
Antico e moderno che si rincorrono, sempre. Così, per arrivare a Camaldoli, Valori affronta lo studio di Tommaso Campanella, Bernardino Telesio e, più vicino a noi, Pietro De Roberto.
Mi è già capitato di scriverlo a proposito di un altro libro di Valori, ma val la pena riproporlo.
Thomas Stearns Eliot, grandissimo poeta ma anche finissimo critico letterario, ha dedicato al tema della tradizione e del rapporto di essa con il presente, pagine decisive. Egli scriveva: «La tradizione non può essere ereditata, e se uno la vuole deve ottenerla con grande fatica. Essa implica, in primo luogo, il senso storico […] e il senso storico implica una percezione, non solo della condizione di passato del passato, ma della sua presenza».
Senza la piena e lucida consapevolezza delle proprie radici – indissolubilmente legate e intrecciate a culture altre, simbolismi, evocazioni, riti e miti, usi e riusi del passato – non esiste futuro.
Questo stupefacente volume ne è eloquente e convincente testimonianza.

Oliviero Diliberto